IL TRIBUNALE
   Letti gli atti;
   Considerato che Vatiero Giuseppe propone reclamo  avverso  il  d.m.
 10  febbraio   1997 emanato ai sensi dell'art. 41-bis, comma 2, 1.p.,
 che instaura un regime di trattamento differenziato fino al 10 agosto
 1997;
   Preso atto che Vatiero Giuseppe in atti risulta  essere  condannato
 per  associazione  a  delinquere  ai  stampo  camorristico  e spaccio
 stupefacenti con fine pena 8 agosto 2009, giudicabile per  detenzione
 e  spaccio  stupefacenti,  nonche'  condannato per falso con scadenza
 pena all'8 febbraio 2010;
   Atteso che l'art. 41-bis introdotto con  art.  19  d.-l.  8  giugno
 1992,  n. 306, convertito con legge n. 356 del 7 agosto 1992, dispone
 che  "Quando ricorrano gravi motivi di ordine e  sicurezza  pubblica,
 anche  a richiesta del Ministro dell'interno, il Ministro di grazia e
 giustizia ha altresi' la facolta' d sospendere in tutto o  in  parte,
 nei  confronti  dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1
 dell'art. 4-bis, l'applicazione delle regole di trattamento  e  degli
 istituti  che  possono porsi in concreto contrasto con le esigenze di
 ordine e sicurezza";
   Letto che il  decreto  ministeriale  impugnato,  in  considerazione
 della  particolare  pericolosita' del soggetto che rende ipotizzabile
 la  permanenza  di  collegamenti  operativi  con  le   organizzazioni
 criminali,  limita  la  corrispondenza  telefonica  ad una telefonata
 mensile ai familiari o convivente, sospende i colloqui con  i  terzi,
 limita  i  colloqui  con i familiari e conviventi  a due al mese e di
 durata non superiore ad un'ora, indipendentemente  dal  numero  delle
 persone, limita la ricezione  dei pacchi contenenti generi ed oggetti
 a  due  pacchi  al  mese  nei  limiti  di  peso  stabiliti  (kg.  5),
 prescrivendo  che  contenga  esclusivamente  abiti,   biancheria   ed
 indumenti intimi, sospende la ricezione di somme in peculio superiori
 all'ammontare  mensile  stabilito  ex art. 54  decreto del Presidente
 della  Repubblica  n.  431/1976,  sospende  le  attivita'  culturali,
 ricreative  e  sportive,  sospende  la  nomina  e partecipazione alle
 rappresentanze dei detenuti e limita la permanenza all'aria aperta  a
 due ore al giorno.
                             O s s e r v a
   In via preliminare va evidenziato che pende innanzi codesta suprema
 Corte    procedimento   analogo   per   accertare   la   legittimita'
 costituzionale dell'art. 41-bis della legge n. 354/1975 e  successive
 modifiche,  promosso  con  ordinanza  di  questo  stesso tribunale di
 sorveglianza,  in  diversa  composizione,  in  data 18 marzo 1996 con
 giudizio fissato, su rinvio dal 9 maggio 1997, al 1 ottobre 1997  per
 Mariano   Ciro.    Parimenti,  deve,  doverosamente,  precisarsi  che
 nell'anno in corso dalla precedente ordinanza vari sforzi sono  stati
 posti  in essere dalla amministrazione penitenziaria nel tentativo di
 rendere piu' accettabile il regime particolare  imposto  dai  decreti
 ministeriali  ex  art.  41-bis,  legge  penitenziaria,  ma  comunque,
 muovendosi sempre sullo stesso terreno normativo gia'  oggetto  della
 precedente eccezione di  incostituzionalita' di questo tribunale.  E'
 pur vero, come sostenuto da piu' parti, che il problema, ormai annoso
 e  gia'  varie  volte affrontato dalla Corte costituzionale, potrebbe
 trovare  rapida  e  piu'  semplice  soluzione  in  una  pronunzia  di
 accoglimento  dei  reclami  proposti contro i decreti ministeriali di
 ripetute proroghe dei regimi differenziati, ma  e'  altrettanto  vero
 che  in  tal  modo verrebbe implicitamente riconosciuta la fondatezza
 giuridica di una disposizione  normativa,  che  si  asserisce  essere
 contro    i   principi   costituzionali,   lasciandone   intatta   la
 funzionalita' operativa con le sue potenziali applicazioni.
   Nel merito, richiamando guanto  gia'  precedentemente  scritto,  si
 ricorda  che  ai  ristretti in stato di detenzione va riconosciuta la
 titolarita' di situazioni soggettive  attive,  come  gia'  dichiarato
 dalla  Corte  costituzionale  con sentenza n. 349/1993, cosi' come va
 garantita quella parte di liberta' che la detenzione non intacca.
   Va tenuto fermo, infatti, il principio della  inviolabilita'  della
 liberta'  personale  sancita  dall'art. 13 della Costituzione, valido
 anche  nei  confronti  dei  sottoposti  a  limitazioni  della  stessa
 liberta'  personale durante la custodia cautelare ovvero l'esecuzione
 della pena, sia pure  con  tutte  le  restrizioni  che  lo  stato  di
 detenzione comporta.
   Da   qui  un  primo  corollario  di  fondamentale  importanza  gia'
 ricordato  dalla  Corte  costituzionale  nella  succitata   sentenza:
 l'adozione   di   provvedimenti   tesi   ad   introdurre  restrizioni
 nell'ambito della parte residua di liberta'  personale,  sempre  viva
 anche  nei soggetti detenuti, di restrizioni che, comunque comportino
 ulteriori  limitazioni  della  liberta'  personale,   puo'   avvenire
 esclusivamente  con  le  garanzie espressamente previste dall'art. 13
 della Costituzione, riserva di legge e riserva di giurisdizione.
   Alla liberta' personale del soggetto corrisponde, d'altra parte, il
 potere di coazione dello Stato, a difesa dei cittadini e  dell'ordine
 giuridico,   potere   che   si   estrinseca   attraverso  l'attivita'
 dell'amministrazione, cui compete la responsabilita' della  custodia,
 del  trattamento  e della sicurezza dell'istituzione penitenziaria, e
 l'attivita' dell'ordine giudiziario, cui  spetta  l'attuazione  della
 potesta'  punitiva  dello  Stato e il controllo sull'esecuzione della
 pena.
   E' vero  che l'amministrazione puo' intervenire  con  provvedimenti
 che  incidono  sulle    modalita' di esecuzione della pena, ma e' pur
 vero che tali interventi  non  possono  essere  in  contrasto  con  i
 principi  costituzionali  tutelati  ex  artt.  13,  24, 27, 113 della
 Costituzione.
   La Corte costituzionale nella sentenza n. 349/1993 ha  riconosciuto
 la  sindacabilita'  dei  provvedimenti emessi ex art. 41-bis 1.p.  da
 parte  del  gudice  ordinario,  secondo  le  medesime  modalita'  del
 controllo  giurisdizionale  esercitato ai sensi di legge sull'operato
 dell'amministrazione    penitenziaria   nonche'   sui   provvedimenti
 riguardanti l'esecuzione delle pene.
   Precisando, con la successiva pronunzia n. 410 del 1993,  che  "...
 una   volta   affermato   che   nei   confronti  dell'amministrazione
 penitenziaria i detenuti restano titolari di posizioni giuridiche che
 per la loro stretta inerenza alla persona  umana  sono  qualificabili
 come   diritti   soggettivi   costituzionalmente  garantiti,  occorre
 conseguentemente riconoscere che la tutela giurisdizionale  di  dette
 posizioni  costituzionalmente  necessaria ai sensi dell'art. 24 della
 Costituzione, non puo' che spettare al giudice dei diritti e cioe' al
 giudice  ordinario.  Nell'attuale  quadro  normativo,  pertanto,   in
 assenza  di  disposizioni  espresse,  la  competenza  a  sindacare la
 legittimita'   dei   provvedimenti   adottati    dall'amministrazione
 penitenziaria  ai  sensi  dell'art. 41-bis deve riconoscersi a quello
 stesso  organo  giurisdizionale  cui  e'   demandato   il   controllo
 sull'applicazione,  da  parte  della  medesima  amministrazione,  del
 regime  di  sorveglianza  particolare,  ai  sensi  dell'art.   14-ter
 dell'ordinamento penitenziario".
   Identita'  di  controllo, quindi, da parte del giudice ordinario su
 due regimi di detenzione particolari: la  sorveglianza  speciale,  ex
 art. 14-bis 1.p., e il regime differenziato, ex art. 41-bis 1.p.
   E  non  solo,  ma  anche  affinita' di contenuto tra l'art. 41-bis,
 introduttivo del regime differenziato di sospensione del  trattamento
 penitenziario,  e  l'art.  14-bis  e seguenti, che nella sua concreta
 applicazione, cita la Corte  "...  viene  ad  assumere  un  contenuto
 largamente coincidente con il regime differenziato ... introdotto con
 il provvedimento ex art. 41-bis".
   Ed  ancora...  "E'  di  intuitiva evidenza che il potere esercitato
 serve,  in  entrambi  i  casi,   a   consentire   all'amministrazione
 penitenziaria  di  predisporre  uno  strumento  di particolare rigore
 mediante il quale fronteggiare la pericolosita'  di  ben  determinate
 categorie di detenuti.
   Ricorre,  inoltre  una  notevole  identita'  di presupposti, stante
 l'ampia  possibilita'  di  applicare  il   regime   di   sorveglianza
 particolare   a   qualsiasi   detenuto,   sulla  base  di  precedenti
 comportamenti penitenziari, "o di altri concreti comportamenti tenuti
 nello stato di liberta'" (art. 14-bis, comma 5)".
   Ricordiamo, per un attimo, la sequenza legislativa che ha dato vita
 all'assetto normativo attuale.
   L'art. 14-bis e' stato  introdotto  nell'ordinamento  penitenziario
 dall'art. 1 legge 10 ottobre 1986, n. 663.
   "Regime  d  sorveglianza  particolare. Possono essere sottoposti al
 regime di sorveglianza particolare per un periodo non superiore a sei
 mesi, prorogabile anche piu' volte,  in  misura  non  superiore  ogni
 volta a tre mesi, i condannati, internati e gli imputati ...".
   La medesima novella del 1986 introduceva l'art. 41-bis, comma 1, in
 sostituzione dell'abrogato art. 90 legge n. 354/1975.
   Giova richiamare il suo contenuto:
   Situazioni  di emergenza. In casi eccezionali di rivolta o di altre
 gravi situazioni di emergenza, il Ministro di grazia e  giustizia  ha
 facolta'  di  sospendere nell'istituto interessato o in parte di esso
 l'applicazione delle normali regole di  trattamento  dei  detenuti  e
 degli internati. La sospensione deve essere motivata dalla necessita'
 di  ripristinare  l'ordine e la sicurezza e ha la durata strettamente
 necessaria al conseguimento del fine suddetto".
   Questo il dettato dell'art. 41-bis,  comma  1,  inserito  sull'onda
 delle molteplici polemiche sollevate dall'abrogato art. 90.
   Si  presenta, ad una semplice lettura, doverosamente "limitato" nei
 suoi  spazi  applicativi,  sia  temporalmente,  "durata  strettamente
 necessaria al conseguimento del fine suddetto", sia per la sua stessa
 ragione  d'essere  "casi  eccezionali  di  rivolta  o  di altre gravi
 situazioni di emergenza".
   Il nuovo assetto normativo  penitenziario,  anno  1986,  prevedeva,
 quindi,     due     possibilita'    di    intervento    "particolare"
 dell'amministrazione   penitenziaria,   attraverso   l'art.   14-bis,
 introduttivo  del  regime  di  sorveglianza particolare ad personam e
 l'art. 41-bis, comma 1, portatore di un regime differenziato inerente
 l'istituto penitenziario, o una parte di esso.
   Nel sistema, peraltro, era gia' inserita la possibilita' di reclamo
 al giudice ordinario, ex art. 14-ter, introdotto  dall'art.  2  della
 legge n. 663/1986.
   Successivamente,  con  il  d.-l.  8 giugno 1992, n. 306, convertito
 nella legge 7  agosto  1992,  n.  356,  viene  inserito  il  comma  2
 nell'art.    41-bis  che  prevede  la  sospensione  delle  regole  di
 trattamento e degli istituti previsti dalla legge  penitenziaria  nei
 confronti  dei  detenuti  per  taluno  dei  delitti di cui al comma 1
 dell'art. 4-bis,  articolo  introdotto  nel  medesimo  decreto-legge.
 Ritorna,  quindi, il regime, differenziato ad personam generalizzato,
 e ritorna quella tipizzazione del detenuto, per taluno dei delitti di
 cui al comma 1 dell'art.  4-bis,  ossia  due  "sistemi  operativi  di
 intervento"  ad  opera  dell'amministrazione penitenziaria, avverso i
 quali gia' la dottrina nonche' la giurisprudenza  precedente  si  era
 gia' innumerevoli volte pronunziata.
   E  rileggiamo  insieme  nuovamente  il  comma  2  dell'art. 41-bis:
 "Quando ricorrano gravi motivi di ordine  e  di  sicurezza  pubblica,
 anche a richiesta del Ministero dell'interno, il Ministro di grazia e
 giustizia ha altresi' la facolta' di sospendere, in tutto o in parte,
 nei  confronti  dei detenuti per taluno dei delitti di cui al comma 1
 dell'art. 4-bis, l'applicazione delle regole di trattamento  e  degli
 istituti  previsti dalla presente legge che possano porsi in concreto
 contrasto con le esigenze di ordine e di sicurezza".
   Come puo' notarsi, anche ad una lettura superficiale, e'  scomparso
 qualunque   richiamo   temporale;   laddove   si   passa  dal  regime
 differenziato  per  istituto  al  regime   differenziato   personale,
 scompare  la  limitazione  della  "durata  strettamente necessaria al
 conseguimento del fine suddetto".
   Temporaneita' che non  solo  e'  presente  nel  comma  1  dell'art.
 41-bis, ma che ritorna anche nel disposto dell'art. 14-bis, regime di
 sorveglianza  particolare,  laddove  il  comma  1  cita letteralmente
 "possono essere sottoposti a regime di sorveglianza  particolare  per
 un  periodo non superiore a sei mesi, prorogabile anche piu' volte in
 misura non superiore ogni volta a tre mesi, i condannati ...".
   Abbiamo gia' visto come la Corte costituzionale nella  sentenza  n.
 410/1993  ha  riconosciuto  "la notevole identita' di presupposti" in
 una al "contenuto largamente coincidente" tra l'art. 14-bis e  l'art.
 41-bis, comma 2,  e il limite temporale?
   L'applicazione  del  regime  differenziato ex art. 41-bis, comma 2,
 opera senza possibilita' di limitazioni temporali,  sia  per  dettato
 normativo,  sia  per  concreta  fattispecie,  atteso  che  i  decreti
 ministeriali  di  sospensione  delle   regole   di   trattamento   si
 susseguono, di sei mesi in sei mesi, dal 1993, senza che peraltro sia
 indicata,  nelle  successive  proroghe,  alcuna  motivazione  nuova o
 diversa rispetto alla prima,  origine  dell'applicazione  del  regime
 differenziato.
   A  cio'  aggiungasi,  che  mentre  l'art.  29  del decreto-legge n.
 306/1992,  istitutivo  del    regime  differenziato,   prevedeva   la
 cessazione  dell'efficacia  delle  disposizioni  di  cui all'art. 19,
 ossia 41-bis comma 2, trascorsi tre  anni  dalla  entrata  in  vigore
 della  legge  di  conversione  del  decreto,  l'art. 1 della legge 16
 febbraio 1995, n. 96, ha prorogato tale efficacia fino al 31 dicembre
 1999.
   Pertanto, dal combinato disposto delle  leggi  suindicate  si  puo'
 dedurre  che  il  nostro ordinamento prevede l'esistenza di un regime
 differenziato di esecuzione della pena per una particolare  tipologia
 di   detenuto,   determinato   per  legge,  che  ha  possibilita'  di
 applicazione, al momento, dal 1993 al 1999.
   Nel caso di specie, per esempio, il Vatiero  corre  il  rischio  di
 continuare  ad  espiare  la  sua  pena, per i delitti per cui e' gia'
 stato condannato, o solo, a vedersi privato della liberta'  personale
 in  stato  di  custodia  cautelare,  nella veste di solo imputato, in
 condizioni di regime differenziato dal 1993,  come  gia'  accade,  al
 1999,  sulla  base  di  una  normativa  attale del nostro ordinamento
 penale e in presenza di una motivazione di fatto che e' la stessa del
 1993, tirata in ballo e rivestita di nuovo ogni sei mesi.
   Sembra inevitabile la contestazione della  incostituzionalita'  del
 dettato dell'art. 41-bis, comma 2, in relazione agli artt. 3, 13, 24,
 25, 27 e 113 della Costituzione, come ora andremo a motivare.
   E  cio', per sfatare strumentali o strategiche interpretazioni, non
 in difesa di questa o quella modalita' operativa  o  di  qualsivoglia
 tipicita'  di  intervento proprie della magistratura di sorveglianza,
 come gia' sussurrato di fronte agli innumerevoli ricorsi  alla  Corte
 costituzionale  proposti  in riferimento all'art. 41-bis, ma solo per
 salvaguardare  quei  principi  fondamentali     della  nostra   Carta
 costituzionale  anche  nella  fase della esecuzione della pena, nella
 fase in cui, in pratica, "si fa diritto".
   A) In particolare, puo' affermarsi che l'art. 41-bis, comma  2,  si
 pone in contrasto con l'art. 3 della Costituzione, nella parte in cui
 ipotizza  una specifica categoria di detenuti, imputati e condannati,
 predeterminati per dettato normativo,  costretti  ad  una  esecuzione
 della  pena,  o anche solo della custodia cautelare, comunque diversa
 da quella disposta per la criminalita' ordinaria.
   Del resto la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 349/1993
 aveva espresso la sua perplessita' dinanzi ad una individuazione, per
 titolo dei reati, dei destinatari dei  provvedimenti  restrittivi  ex
 art.   41-bis,  evidentemente  poco  coerente  con  il  principio  di
 individualizzazione della pena.  Ed infatti la stessa Corte ribadiva:
 ... "deve ritenersi implicito - anche in assenza  di  una  previsione
 espressa   della   norma,   ma   sulla  base  dei  principi  generali
 dell'ordinamento - che i provvedimenti ministeriali debbano  comunque
 recare  una  puntuale  motivazione per ciascuno dei detenuti cui sono
 rivolti (in  modo  da  consentire  poi  all'interessato  un'effettiva
 tutela   giurisdizionale),   che  non  possano  disporre  trattamenti
 contrari al senso di umanita', e, infine, che debbano dar  conto  dei
 motivi   di  una  eventuale  deroga  del  trattamento  rispetto  alle
 finalita'  rieducative della pena ...".
    In breve, nelle parole della Corte ritorna  tutto  lo  spettro  di
 situazioni   di   incostituzionalita'   ipotizzabili,   nonche'   qui
 richiamate, dall'art. 3 all'art. 27 della Costituzione.
   E' opportuno ricordare ancora, che la Corte, sentenza n.  349/1993,
 continua  sottolineando  che  le  medesime  ragioni che consentono di
 escludere   l'illegittimita'   costituzionale    dell'art.    41-bis,
 delimitandone  l'ambito applicativo ed integrandone il portato con il
 richiamo  ai  principi  generali  dell'ordinamento,  conducono   alla
 conclusione  che  taluni  dei  rilievi  dei  giudici remittenti nelle
 precedenti eccezioni di incostituzionalita' prospettate,  trovano  la
 loro   causa   non   nell'articolo  di  legge  ma  solo  nel  decreto
 amministrativo   di   applicazione,   atteso   che    una    corretta
 interpretazione  dell'art. 41-bis, comma 2 non consente l'adozione di
 provvedimenti  suscettibili  di  incidere  sul  grado   di   liberta'
 personale del detenuto.
   Tesi  accettabilissima,  fin  quando  pero' non ci si trova dinanzi
 alla proroga immotivata e ripetuta del decreto  ministeriale  stesso.
 Anche  a  voler riconoscere con la suprema Corte che ... "la corretta
 lettura della norma non puo' che limitare  il  potere  attribuito  al
 Ministro  alla sola sospensione di quelle medesime regole ed istituti
 che gia' nell'ordinamento penitenziario appartengono alla  competenza
 di  ciascuna amministrazione penitenziaria e si riferiscono al regime
 di detenzione in  senso  stretto"  ...,  ,  non  puo'  non  suscitare
 perplessita'  l'evidente  contrasto con il dettato dell'art. 3, primo
 comma, 13, secondo comma, 27, secondo e  terzo  comma,  Costituzione,
 laddove  la  proroga ripetuta e immotivata del decreto esula di fatto
 da   quei   caratteri   di   "uguaglianza,    necessita',    urgenza,
 provvisorieta' e umanita'" costituzionalmente rilevanti.
   E'  evidente  che in tale situazione deve, estrema ratio ricorrersi
 all'attribuzione dell'intera responsabilita'  al  dettato  normativo,
 che  solo  se  diversamente  scritto,  potrebbe  evitare  il monotono
 susseguirsi di anomalie giuridiche.
   L'art. 41-bis, comma 2, opera indipendentemente  e  al  di  la'  di
 situazioni  di eccezionalita' e emergenza, nonche' da ogni previsione
 temporale, concetti che pure  compaiono  nel  comma  1  del  medesimo
 articolo;   ne',   del   resto,  risulta  ancorato  ad  atteggiamenti
 particolarmente  significativi  del  detenuto,  sia  soggettivi   che
 oggettivi,  comunque  inerenti  la sua condotta intramuraria ovvero i
 suoi rapporti con il mondo esterno.
   Nei decreti ministeriali successivamente notificati,  con  proroghe
 di   sei   mesi  in  sei  mesi,  dal  1993  in  poi,  unico  elemento
 "giustificativo"  della   proroga,   essia,   nuovo   rispetto   alla
 motivazione  di  base, appare la "polemica" pseudogiuridica innestata
 con   i   tribunali    di    sorveglianza    sulla    interpretazione
 giurisprudenziale   del  decreti  stessi.    Del  resto  nei  decreti
 ministeriali che si allegano,  appare  evidente  che  la  motivazione
 strettamente  collegata alla persona del Vatiero esula da riferimenti
 a fatti o persone comunque successivi nel tempo a quanto indicato nel
 decreto ministeriale del 1993, nonche' da qualunque riferimento  alla
 posizione  giuridica  stessa  del  detenuto,  che  nel frattempo, per
 esempio,  risulta  assolto con formula piena da una delle imputazioni
 per omicidio, fondandosi essenzialmente sulle aggiornate, ma solo  in
 quanto   al   tempo,   informazioni  delle  forze  dell'ordine  sulla
 pericolosita' del detenuto.
   Ci troviamo, di fatto, di fronte ad una tipizzazione del  detenuto,
 "speciale"  in quanto ha commesso uno o piu' reati indicati nell'art.
 4-bis  della  legge  penitenziaria;  tipizzazione,  che,  al  limite,
 potrebbe  avere  anche  una sua ratio nella particolare pericolosita'
 sociale  dimostrata  da  taluni  soggetti,  refrattari  a   qualsiasi
 trattamento  riabilitativo, ed anzi cosi' spiccatamente pericolosi da
 rendere indispensabile l'adozione di un regime differenziato nei loro
 confronti, ma che in quanto tale, pero', trova spazio giuridico  solo
 se ancorata a precisi e predeterminati criteri di eccezionalita', sia
 oggettiva  che  soggettiva,  comunque  riprodotti  in  una  severa  e
 dettagliata motivazione.
   Sembra superfluo ribadire che una  corretta  stesura  della  norma,
 proprio nel rispetto di quei principi costituzionali gia richiamati e
 dell'interpretazione   rigorosamente   restrittiva   delle  norme  di
 carattere  eccezionale,  implica,  necessariamente,  una  indicazione
 netta di temporaneita' nonche' la esigenza di una verifica costante e
 continua degli sviluppi della situazione.
   B)  Ne'  la  riconosciuta  possibilita' di impugnazione del decreto
 dinanzi al giudice  ordinario,  nel  rispetto  dell'art.  113,  comma
 primo,  della  Costituzione,  e'  sufficiente  a  colmare  il disagio
 legislativo.  La situazione di fatto creata dalla  proroga  inopinata
 del  decreto ministeriale, infatti, e'  evidente, non puo' non creare
 serissimi ostacoli a quel diritto di difesa,  pur  riconosciuto  come
 "inviolabile  in  ogni  stato  e grado del procedimento" dall'art. 24
 Costituzione.
   Difesa che, ne' in diritto ne'  in  fatto,  trova  possibilita'  di
 eplicazione   di   fronte  al  ripetersi  monotono  e  immotivato  di
 contestazioni consolidate, ancorate a episodi storici  ormai  datani,
 di  fronte  a  decreti  ministeriali in cui unico elemento innovativo
 risulta  essere  l'adeguamento   o   meno   alle   ultime   decisioni
 giurisprudenziali.
  La  stessa Corte aveva ipotizzato il verificarsi di tali incresciose
 ipotesi  quando  aveva  evidenziato  la  necessita'  che  i   decreti
 ministeriali  contenessero  una puntuale motivazione per ciascuno del
 detenuti cui rivolti, "in  modo  da  consentire  poi  all'interessato
 un'effettiva tutela giurisdizionale" sentenza n. 410/1993 richiamata.
   C)  L'art. 41-bis comma 2, l.p. si pone in contrasto con l'art.  27
 Costituzione, laddove la continua incidenza di  restrizioni  comunque
 influenti  "sulla  pena"  e  sul  grado  di  liberta'  personale  del
 detenuto, residua e  "ancora  piu'  preziosa  in  quanto  costituisce
 l'ultimo   ambito   nel   quale   puo'  espandersi  la  sua  liberta'
 individuale" non puo' non concretizzarsi in un trattamento, di fatto,
 contrario al senso di umanita' e opporsi a quel fine di  rieducazione
 del  condannato,  che  l'art.  27,  comma secondo, della Costituzione
 tutela.
   In effetti  il  decreto  ministeriale,  prevedendo  la  sospensione
 dell'applicazione  delle  regole  di  trattamento  e  degli  istituti
 previsti dall'ordinamento  penitenziario,  preclude  al  detenuto  la
 possibilita'  di  fruire  di  quel  trattamento  rieducativo  di  cui
 all'art. 13 della legge n.  354/1975,  nonche'  la  partecipazione  a
 quelle attivita' culturali, ricreative e sportive, indicate nell'art.
 27,  legge  medesima,  sistemi  finalizzati  alla realizzazione della
 personalita' del detenuto e alla sua risocializzazione.   Equivale  a
 riconoscere che determinate categorie di soggetti sfuggono, di fatto,
 a   qualunque   tentativo  di  risocializzazione.  Nessuna  obiezione
 nell'accettare la fondatezza e la razionalita'  di  una  tale  scelta
 operativa;  occorre tenere presente, pero', che il nostro ordinamento
 giuridico si basa su principi generali ben precisi e  immodificabili,
 con i quali e' sempre opportuno confrontarsi nella ricerca di momenti
 di  mediazione,  ma  dai quali, comunque, e' impossibile prescindere.
 L'art. 41-bis, comma 2, in particolare, si pone in  contrasto  anche'
 con il primo comma dell'art. 27 della Costituzione, laddove introduce
 la  possibilita'  di  applicazione  del regime differenziato anche al
 solo imputato per  taluno  dei  delitti  ex  art.  4-bis  ordinamento
 penitenziario.    Cio'  inevitabilmente  rappresenta  una  violazione
 gravissima e immotivata del dettato  dell'art. 27 della Costituzione,
 primo comma. Paradossalmente l'imputato, non  colpevole  per  dettato
 costituzionale,  comma primo art. 27, proprio in quanto imputato, per
 quei determinati delitti, e' soggetto alle  limitazioni  disposte  ex
 art.  41-bis:  sembra  una contraddizione di parole ma corrisponde ad
 una situazione di fatto,  che  resta  innegabile  nella  sua  anomala
 concretezza.
   D)  E vale la pena di ricordare qui anche il dettato costituzionale
 dell'art. 25, laddove, al comma secondo, sancisce che  "Nessuno  puo'
 essere  punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore
 prima   del   fatto   commesso".      Crediamo   che   sia   pacifica
 l'interpretazione  che  vede  il  termine "punire" non   strettamente
 connesso alla sola sanzione penale prevista legislativamente.
   Se "punire" equivale a punizione,  il  decreto  ministeriale,  che,
 comunque,   aggiunge   "pena   a   pena",   che   comunque  restringe
 ulteriormente  lo  spazio  vitale  del  detenuto,  e  questo   sembra
 innegabile  trova  la propria fonte normativa in un decreto-legge del
 1992, 8 giugno, n.   306, ossia successivo al  momento  del  commessi
 reati,  o  dei  presunti  commessi  reati  per  i  quali il detenuto,
 Vatiero; trovasi attualmente detenuto.
   Sembra innegabile l'irrettroattivita'  delle  disposizioni  penali,
 come   principio,   generale   dell'ordinamento,   dovrebbe   operare
 verosimilmente in ogni dettato normativo.   Nell'ambito delle  stesse
 disposizioni  antimafia  si potrebbe ricordare il dettato dell'art. 4
 d.-l. 13 maggio 1991, n. 152, che statuisce che "Le  disposizioni  di
 cui  all'art.  1  condannati  per delitti commessi dopo la entrata in
 vigore del presente decreto".
   Una dizione del genere poteva essere sufficiente, magari, a salvare
 l'art. 41-bis, comma 2, dall'ennesima accusa di  incostituzionalita'.
 In  verita',  dopo  la  prima pronunzia della Corte costituzionale di
 rilievo fondamentale, la  sentenza  n.  349/1993,  il  riconoscimento
 formale della sindacabilita' del decreto ministeriale emesso ai sensi
 dell'art.  41-bis, comma 2, legge penitenziaria, da parte del giudice
 ordinario  sembrava  aver   fugato   perplessita'   e   dubbi   sulla
 eccezionalita'  della norma in oggetto.  Successivamente, invece, una
 numerosa produzione di giurisprudenziale si  faceva  portavoce  delle
 problematiche    interpretative  della  magistratura di sorveglianza,
 ormai abituata a lavorare sulla base di disposizioni legislative nate
 sull'onda emozionale collettiva, collegate ad un particolare  momento
 storico-sociale  del  paese,  che comunque si trovano a riverberare i
 propri effetti, negli anni successivi su situazioni comunque  diverse
 per   tempo,   luogo   e   personaggi.      Da   qui   eccezioni   di
 incostituzionalita',  spesso  ripetitive,  e'  vero,  ma   di   certo
 finalizzate  in  assoluto alla ricerca di una soluzione del problema,
 che rispetti e difenda i principi generali del nostro ordinamento,  e
 che  trovi infine il coraggio del diritto per eliminare situazioni di
 insostenibile ibridismo giuridico. Pertanto, letto  l'art.  23  della
 legge 11 marzo 1953, n. 87;
   Sentito il parere conforme del p.g.